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L'arte va comprata perché ti piace, non perché pensi che ti possa servire”, parla Clarice Pecori Giraldi, Direttore Christie's

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Messaggio Da Notaio Ven 24 Apr 2015, 00:22

Quella che vi posto è una bella intervista rilasciata da Clarice Pecori Giraldi, Direttore delle Vendite Private da Christie's.
Vi sono alcune informazioni relative alla sua carriera, ma ci sono anche delle considerazioni molto interessanti sul mondo dell'arte e delle aste. Rilfessioni molto interessanti sui musei e sul mercato dell'arte in vari paese del mondo, inclusa la nostra bella Italia.
L'intervista inizia proprio con questa frase, la più lontana da quelle che sentiamo spesso dire da Carlo Vanoni nelle sue trasmissioni.

Noi, come casa d'aste, stiamo sempre attenti a dare consigli sull'arte come investimento. L'arte va comprata perché ti piace, non perché pensi che ti possa servire”

«Nessun problema a dirlo: ho 53 anni». Clarice Pecori Giraldi, a dispetto del nome altisonante, non mette barriere. Tra amici si direbbe che “non se la tira per niente”.
Direttore delle Vendite Private da Christie's, tra le più famose case d'aste al mondo, maneggia affari che rappresentano circa il 20% del fatturato globale della società (8.4 miliardi di dollari). Cifre importanti, insomma.
 L'arte va comprata perché ti piace, non perché pensi che ti possa servire”, parla Clarice Pecori Giraldi, Direttore Christie's C0a61910

 Prima di cinque figli, nata a Firenze, ma cresciuta ovunque: Livorno e Castellammare, poi addirittura a Tokyo. Ha cambiato tredici differenti scuole: ne ha frequentate di italiane, di inglesi e pure di tedesche quand'era nell'amata Vienna: «Sono arrivata lì che avevo 15 anni. Credo sia stata allora la mia folgorazione per l'arte. Vienna ne era imbevuta: Klimt, Schiele e tutta la sua letteratura, che io ho sempre amato molto».
Poi però, non ha studiato subito arte: «Mi sono iscritta a Giurisprudenza, che non ho nemmeno finito, perché poi ho iniziato a lavorare presto: da Sotheby's all'inizio. Poi Christie's, Prada, Ferragamo e rientro da Christie's». I ruoli, negli anni sono cambiati: oggi è negli uffici di Londra: «Difficile dire se ho un'identità geografica, ma sicuramente ho un'identità affettiva. Mi sento italiana: di solito rispondo di essere di Firenze».

Tutto questo girovagare comunque le è servito: «Indubbiamente è un'apertura mentale che ti aiuta in tutto ciò che fai. Ogni volta è un nuovo inizio e sai che devi contare su di te, su ciò che sai fare, su ciò che sei». E lei ci è riuscita, tanto che oggi si muove nel mondo intero con totale nonchalance. Per il suo lavoro è fondamentale riuscire a capire dinamiche, gusti e tendenze dei diversi Paesi. Tanto più che oggi, oltre alle solite New York e Londra, anche per affari bisogna saper guardare altrove: a Pechino, Hong Kong e a Dubai per esempio, scese tutte in campo nei giochi degli affari.

«È un mercato sempre più internazionale, che tocca davvero tutte le nazioni: dieci anni fa non era così. Ma non è una globalizzazione indistinta: ogni Paese ha una sua propria caratteristica. L'Italia, la Francia e la Spagna sono, per esempio, Paesi di venditori: ci sono collezioni che sono state messe insieme dopo la Guerra, e che sono state passate di generazione in generazione. I Paesi emergenti, o comunque quelli che non fanno parte di queste economie più antiche, sono invece per lo più acquirenti. Poi c'è l'America che è un discorso a sé: lì una collezione viene messa in piedi da una persona, che prevede di disfarsene quando non ci sarà più... Negli Stati Uniti non esiste la tradizione di lasciare le cose ai figli: ognuno si fa la sua storia da sé». Da una parte l'America, dall'altra la Russia: «Ma i russi già si vedono meno: questo embargo si sente e ha un impatto pesante. È semmai il mondo asiatico, oggi, a essere estremamente attivo».

 Così anche il Far East e Middle East entrano nella scena dell'arte. Per affermare uno status symbol? «Beh, all'inizio tutti hanno acquistato pezzi d'arte per status symbol. Il processo è uguale da sempre: anche per i Medici avere un dipinto del Bronzino era status symbol». Ognuno, poi, ha il suo: «Come prima cosa questi Paesi emergenti comprano pezzi d'arte delle loro parti, che rappresentano comunque una loro estetica e parlano al loro dna. Tutti i russi, per esempio, adorano Fabergé e l'espressionismo».
Vendere, comprare, comprare e vendere. E la crisi? «La crisi, certo, si è sentita anche nel mondo dell'arte. I primi scossoni ci sono stati già nel 2008, quando successe il patatràc in America. Come per il resto, la fascia media è quella che ne ha risentito di più: i grossi acquirenti sono invece rimasti tali. Bisogna inoltre aggiungere che sono cambiate le abitudini e i gusti, che in parte hanno frenato alcune categorie: penso ai tappeti, all'argenteria, ai lampadari con le tante lampadine, oggi difficili da vendere. La loro ricchezza sta nel potertersele godere».

   *L'abbiamo scelta perché da anni è ai vertici di una delle case d'aste più famose del mondo

 Non sono cioè una garanzia di ricchezza futura. Ma un'opera d'arte può essere davvero un bene-rifugio? «Noi come casa d'aste stiamo sempre attenti a dare consigli sull'arte come investimento. L'arte va comprata perché ti piace, non perché pensi che ti possa servire. Ciò detto, è comunque vero che certi tipi di opere possono essere visti come un'alternativa o come una diversificazione di investimento, ma solo se rappresentano una piccola parte del patrimonio. Come dire, difficile che dei bei disegni di Picasso perdano il loro valore. Chiaro: bisogna sapere bene che cosa si va a comprare, bisogna avere umiltà e approfondire, informarsi».
E questo per quanto riguarda l'arte “vera”. E per i vini pregiati, le macchine? «Quello è un mercato volatile e può essere un gioco estremamente speculativo. Comunque sono per lo più gli uomini che ci si buttano». Ci vuole un po' il piacere del brivido, molta passione, non solo raziocinio: «Il rischio è quello. Il vero collezionista può farsi prendere dal giochetto: diventa monotematico e per quel pezzo che gli manca può fare di tutto».

E non si parla di bruscolini: Christie's, per le sue vendite private, tratta pezzi dai 100mila euro in su e spesso, per le trattative, ci sono tempi lunghi, tra i 6 e i 10 mesi: «Le vendite private sono fatte su misura, devono tener conto di delicatissime strategie». Lei ci mette l'aspetto organizzativo, il rigore nell'incastro dei tasselli: «Poi sono gli specialisti che fanno la differenza: sono loro che devono trasmettere il valore all'acquirente».

Equilibrismi che spesso alle donne vengono bene. Ma questo è un mondo per le donne? «Il mondo anglosassone è tostissimo. Non hanno molta consuetudine a lavorare con le donne. Non posso nemmeno dire che siano maschilisti: semplicemente sono chiusi. Ci si mette un po' a essere accettate. Però una volta che si entra, è fatta. Diciamo che ormai, con trent'anni di lavoro alle spalle, non si possono permettere di trattarmi con sufficienza». Per il resto però, Londra le sembra più facile: «Abitare lì mi piace tantissimo. La qualità della vita è ottima: è una città molto verde e tutti hanno un forte senso civico».

Per cui, nessuna spinta a tornare? «Perché no? Mi piacerebbe molto fare il direttore di un museo italiano, per esempio. Certo è che l'Italia deve fare ancora un altro sforzo. La remunerazione per quei posti è molto più bassa rispetto all'estero. In Inghilterra si dice: se dai noccioline prendi delle scimmie. Per carità, nessuno vuole diventare ricco, ma i lavori qualificati vanno ben pagati. Perché il direttore degli Uffizi deve prendere meno di un amministratore delegato di un'importante azienda italiana? Non sono forse gli Uffizi un posto importante? I musei sono una delle poche cose su cui gli italiani possono puntare: nessuno ha musei diffusi così come li abbiamo noi».

E se è per la mancanza di fondi, lei avrebbe pure un'idea su come poter migliorare le cose: «L'arte è un mercato significativo e dovrebbe avere una fiscalità diversa. Lo sapete che la compravendita tra privati non è tassata? Se tu vendi una casa che hai ereditato, su quella ci devi pagare le tasse. Ma se tu vendi dei quadri che hai ereditato, su quel movimento non paghi nulla. Come se non si riconoscesse l'importanza del mercato dell'arte. Gli introiti che deriverebbero da questa tassazione potrebbero essere un tesoro da impiegare nei nostri musei, per promuovere e valorizzare la nostra arte o per incrementare l'arte contemporanea, che nel nostro Paese esiste poco, nonostante tutto il resto del mondo la stia valorizzando».

Tanto che lei, pur appassionata di Rinascimento, l'opera che più vorrebbe è un video: «Di Bill Viola, preso dalla Resurrezione. Accanto ci metterei un quadro di Piero della Francesca, o il ritratto del Duca di Urbino di Andrea Mantegna. Mi piace il contrasto nelle similitudini». Però non tutto il contemporaneo le va giù: «Per esempio non mi è mai piaciuto Damien Hirst e, con lui, tutti gli artisti che si autopromuovono». E per concludere, usciamo dall'arte. Figli? «Sì, ne ho due. Filippo, 26 anni, esperto in gioielli, che lavora da Christie's a Ginevra. E Giulia, 24 anni: fa la pasticcera in Olanda, in un posto in mezzo al niente, al confine con la Germania. Sono figli del primo marito». E ce n'è un secondo? «Sì, Massimo. Abita in campagna, in Romagna e fa il consulente per una casa d'asta inglese per fucili da caccia».

P.S.: Il consiglio di Clarice Pecori Giraldi è quello di studiare arte in Italia: «Inutile andare altrove. Abbiamo Giovanni Agosti all'Università Statale di MIlano: ce lo invidiano tutti...».
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Messaggio Da Morgan Ven 24 Apr 2015, 23:57

Bella intervista...mi avrebbe fatto piacere anche leggere i nomi che hanno consigliato come investimento...

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