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GLI EDITORIALI DELLE VARIE RIVISTE D'ARTE

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Messaggio Da Ospite Ven 04 Lug 2014, 08:48

di certo è uno studioso, il re degli assiri nn è pane comune
magari è la reincarnazione di Sardanaplo famoso per aver trasformato la sua reggia in un lussuoso bordello  Very Happy

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Messaggio Da Notaio Gio 10 Lug 2014, 23:45

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.

E' il turno di Stefano Zecchi

Quando il niente diventa arte.


L’arte visiva ha bisogna della parola per divenire arte.

Henry Miller aveva scritto: “L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita”: Per un iconoclasta e provocatore come lui, capace di disgregare con poche frasi i valori tradizionali, è un’affermazione compromettente: l’arte ci orienta nel compito più difficile, quello di dare un senso alla vita. Se vogliamo, con qualche elementare argomentazione della sofistica, si potrebbe anche sostenere che l’arte insegna a comprendere che il senso della vita è nel suo non avere alcun senso.
Ma sono convinto che non sia questo il senso dell’affermazione di Miller, uno scrittore che amava la letteratura, che conosceva molto bene, che ad essa aveva affidato davvero il senso della propria vita. Quella frase scritta mezzo secolo fa, non la rinnegherebbe neppure oggi.
La comparazione tra le arti – musicali, visive, letterarie, teatrali, cinematografiche – rischia qualche volta di perdersi in banali approssimazioni, per cui è prudente rimanere all’interno delle specificità artistiche quando si vuole esprimere un giudizio estetico. Ma, senza inoltrarci in complicate valutazione comparative, è sotto gli occhi di tutti, madornale, la differenza tra l’arte visiva e tutte le altre espressioni artistiche. Una differenza che si percepisce immediatamente anche nel modo che abbiamo di avvicinarci ad esse.
Giro tra gli scaffali di una libreria, cerco un romanzo da leggere, mi attrae un titolo, il nome dell’autore, intuisco più o meno dalla quarta di copertina di cosa parli il volume, eventualmente sono orientato da qualche segnalazione critica. Compro il libro, lo leggo, mi è piaciuto, ho avuto fiuto, il recensore mi ha dato un buon suggerimento. Viceversa, non mi è piaciuto, ho perso tempo, mando a quel paese il recensore, venti euro – il prezzo – che potevo spendere diversamente. Fine; e stesso inizio quando ritorno in libreria.
Cambia poco se decido di comprare un disco di musica, se vado a teatro o al cinema.
Con l’arte visiva non accade niente di tutto questo. Intanto il prezzo. Non sono un esperto, ma so che un’opera minimamente degna di questo nome deve costare, altrimenti è una ciofeca. Chi fa il prezzo? Il mercato, ovviamente. Ma dietro al mercato c’è il “sistema dell’arte”: il gallerista (o la casa d’aste), il critico, il curator (da pronunciare in inglese), cioè colui che definisce il concept (sempre in inglese) della mostra da allestire in galleria. Il critico è il mago che con qualche frase trasforma la cosa in opera.
L’arte visiva ha bisogno della parola per diventare arte, perché senza la parola sarebbe una cosa qualunque: uno straccio, un orinatoio, uno sbrego sulla tela, un pasticcio di colori. Magicamente, la parola del critico trasforma il niente in un tutto di valore, la cui entità dipende dal pulpito da cui è pronunciata la parola. Una specie di abracadabra, di orazione religiosa alla Totò quando fa il Monaco di Monza: “Ora pro nobis, de profundis, autobus, nobilis”, “Su sum corda, su con le corde”, “Mister quo vadis”.
Insomma, quanto più fumose, astruse, insignificanti sono le parole e le frasi, tanto più sicuro è l’effetto da raggiungere. L’oggetto è nulla, e il fruitore è spodestato dal giudizio al punto che non si deve azzardare ad esprimere il proprio parere, come farebbe con un libro, un disco, un film: al massimo se la può cavare con un “interessante”.
A quest’arte Miller affiderebbe il significato della vita? Sì, una vita senza senso. Per fortuna ci sono ancora libri, dischi … Il fatto che l’arte visiva sia ormai diventata la parola del critico e senza quella parola sia nulla, ha finito per sprofondarla nell’insignificanza oggettiva: puro nominalismo.
Il mercato è solo al termine di questo processo di destrutturazione dell’oggetto in parola, ma è proprio il mercato che potrebbe restituire l’arte all’artista e al fruitore. Come? Alla prossima …
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Messaggio Da Notaio Dom 10 Ago 2014, 10:52

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.

E' il turno di Paolo Levi, con un articolo bellissimo.


Amarcord Michele Cascella

GLI EDITORIALI DELLE VARIE RIVISTE D'ARTE - Pagina 2 Michel10



Quando mi si presenta l’occasione di un amarcord, non me la faccio di certo scappare. Rivisitare luoghi del passato per collegarli ad amici straordinari venuti a mancare da tempo, significa farli rivivere, perché coltivare la memoria fa parte della mia responsabilità professionale. Lo scorso maggio ho trascorso un paio di giorni nella Riviera ligure di Levante e, inevitabilmente sono sceso a Portofino, per cercare il mio tempo perduto. L’ho ritrovato nel ricordo di un lontano agosto del 1983, quando suonai alla porta della residenza estiva di Michele Cascella.

Mi aprì la porta lui stesso, con il grembiule bianco sporco di colori. Lo studio era al piano terreno, e su un cavalletto c’era una tela appena finita con una veduta di Portofino ripresa tra gli ulivi, con miniature di bianche barche a vela nel porticciolo e le caratteristiche case color rosa, scoscese sul mare. Cascella aveva novantun anni, ma la mano che teneva il pennello, intinto con garbo nella tavolozza, era ancora ferma e sicura nei passaggi tonali. Era un bel vecchio dagli occhi azzurri e dallo sguardo scrutatore, la sua voce era forte e la parlata aveva mantenuto le cadenze abruzzesi, benché da sempre vivesse a Milano. Osservandolo mentre si muoveva per lo studio, mi chiedevo dove prendesse tutta quell’energia e quel suo amore per la vita.

In verità i dipinti che mi porgeva in rapida visione, rappresentavano la cocciutaggine poetica di un artista che ogni giorno amava regalarsi un quadro, il riflesso di un sentimento che si trasformava sulla tela in un albero fiorito, o in una grande rosa, o in alcune casette di campagna protette da un cielo azzurro senza nubi, o nel ricordo di un campo di papaveri nella campagna di Ortona, dove era nato nel 1892. Ripeteva queste tematiche come un mantra.

Avevo conosciuto Michele Cascella agli inizi degli anni Settanta, quando mi aveva chiesto di prendermi cura, a livello critico ed editoriale, della sua prima monografia dopo il suo lungo soggiorno americano. In un certo senso aveva dovuto prendere la fuga poiché in Italia, nell’immediato dopoguerra, la ricerca informale aveva ormai vinto la sua battaglia, e i galleristi avevano chiuso le porte ai pittori figurativi di tradizione. Per non parlare della critica d’arte che si era subito allineata alla nuova moda.

Così Michele Cascella, che aveva alle spalle premi, riconoscimenti e Biennali di Venezia, aveva detto arrivederci al suo paese e al mercato che lo avevano abbandonato. Ritornò dopo due decenni, gestendosi assai bene con giovani mercanti non allineati; i suoi quadri furono ben presto accolti da un pubblico che gli restituì la fama. In seguito lo andai a trovare a Milano, nella sua casa al numero 12 di via Vettor Pisani, a pochi passi dalla Stazione Centrale, per fargli gli auguri per i suoi novantacinque anni.

Venne ad aprirmi Nori, la sua governante, che da qualche decennio lo accudiva con grande affetto. Michele fece il suo ingresso accompagnato in carrozzella da un’infermiera, scusandosi se mi riceveva seduto. Mi fece vedere il suo ultimo quadro – una veduta di Portofino – cromaticamente meno intenso, ma meditato, frutto della sua memoria immalinconita, e mi citò una frase del padre che gli fu maestro:

Lo vedi il muro di quella casa? Ebbene, in quella luce diventa una creatura, prende una sua fisionomia, e parla. Parla con te e con Dio soltanto.

Albert Camus ha scritto che «gli uomini muoiono e vengono dimenticati»; ma non tutti. A Portofino, nella scorsa calda primavera, mi sono fermato davanti alla sua porta, attendendo che Michele mi accogliesse ancora una volta, col suo grembiule bianco pieno di macchie di colore, per introdurmi nelle sue – e nelle mie – memorie.
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Messaggio Da Zeta Dom 10 Ago 2014, 14:42

Sostengo che gli artisti possano dire molto anche in tarda età,
mi piacciono molto i colori dei Cascella recenti
come adoro i De Chirico anni 60 ed oltre,
molti artisti invecchiando conservano ancora la passione
e l'amore per la pittura...
al di la di questo caro Notaio
hai postato un bellissimo articolo.
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Messaggio Da gerardo Dom 10 Ago 2014, 16:52

Concordo.Questi articoli sono cibo per la mente.
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Messaggio Da Notaio Ven 12 Set 2014, 00:46

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.
E' il turno di Sandro Serradifalco con un'articolo stupendo quanto mai attuale, la crisi nel mondo dell'arte.


L’Arte e la Crisi: che vogliamo fare?

Si parte con una famosa frase di un tale di nome Eintein

Parlare di crisi significa promuoverla; non parlarne significa esaltare il conformismo. Cerchiamo di lavorare sodo, invece. Smettiamola, una volta per tutte, l’unica crisi minacciosa è la tragedia  di non voler lottare per superarla.” Albert Einstein


Senza dubbio, questo momento storico non lascia spazio a interpretazioni:la crisi c’è,  e sarebbe insano negare il disagio sociale in cui è precipitata l’Italia.

Ma quanta di questa pestilenza economica intacca il lavoro dell’artista?

In questi  anni  ho ascoltato le confessioni dei miei tanti amici pittori e scultori, i loro commoventi sfoghi e le continue delusioni cui il sistema arte li sottopone, perché percepito dai più come capace di mandare avanti solo i soliti noti, a discapito dell’artista meno fortunato.

Tanti mi chiedono amaramente: «A che serve continuare ad esporre?»

Sono però convinto che sarebbe più giusto, ed onesto, domandare a sé stessi il motivo profondo e urgente che spinge a disegnare, dipingere e scolpire. Nonostante tutto.

Se il motivo è quello di arricchirsi per riscattare una vita anonima attraverso la celebrità, avete sbagliato ambizione.

Essere o fare gli artisti?

L’alternativa potrebbe essere quella di chiudersi in casa, andare in letargo e bruciare tele, scalpelli e colori.

O aspettare che venga l’Età dell’Oro, per cui anche l’ultimo degli imbrattatele o il neo diplomato all’Accademia diventino campioni d’incassi.

Spiacente di disilludere gli ottimisti, ma di tempi migliori non se ne vedranno: nulla cambierà proprio perché, a mio avviso, nell’arte nulla è cambiato.

La crisi ha intaccato tutti gli ambiti del fare, ma non ha certo sconquassato l’economia artistica.

Ma allora «Perché non si vende?» mi chiedono gli amici artisti.

E invece si vende, eccome! E i compratori sono coloro che possono permettersi di trarre profitto dalla crisi.

E chi è che trae profitto dalla crisi, mi chiederete?

Beh, pensateci un attimo e ci arriverete da soli.

Tuttavia, e vorrete perdonare la mia romantica attrazione nei confronti di questi geni squattrinati e scapestrati, pittori ricchi e famosi ne conosco davvero pochi, e di giovani pittori milionari in Italia non ce n’è:conosco invece la realtà dei tanti che quotidianamente sfidano l’assoluto di una tela bianca con il coraggio dei colori.

Abbiamo cantanti, attori e atleti appena ventenni ma ricchi oltre ogni logica, però lo stesso non vale per i pittori o gli scultori. D’altra parte il mercato è spietato, e il potenziale artistico di un ragazzo può essere immenso, ma restare commercialmente nullo.

E questo è il mondo dell’arte:continuare a biasimarne il sistema perché al suo interno si occupa un ruolo marginale, significa solo sottrarre tempo ed energia al proprio lavoro.

A tal proposito è meglio rimboccarci le maniche, cercando sempre d’identificarci nell’umile operosità dell’artigiano, piuttosto che nella sterile e arrogante prosopopea dell’artista arrivato.

Consiglio agli artisti di ridimensionare i prezzi delle opere:sono a conoscenza di pretese economiche che sfiorano il ridicolo, non solo rispetto al particolare momento storico.

A chiunque dimostri di apprezzare la vostra arte, pur non disponendo di grandi mezzi, vada tutta la disponibilità che riservereste al più fornito dei collezionisti, magari accordandogli privatamente un tipo di pagamento che agevoli l’acquisto.

Tutti meritano la bellezza e, allo stesso modo, tutti tirano sul prezzo, ma per motivi diversi.

Adottare verso potenziali collezionisti la chiusura che il sistema dell’arte credete riservi a molti di voi, porta a un nulla di fatto di cui poi non dovete lamentarvi.

Create anzitutto per voi stessi, ma anche per il vicino di casa, per l’ortolano di quartiere, così come per l’insegnante dei vostri figli.

Smettiamola di credere che il mondo sia uno star system di vincenti. Il mondo è ciò che vediamo dalle nostre finestre e non dentro lo schermo della tv.

E se le leggi non scritte dell’arte non possiamo cambiarle, sappiamo invece che le crisi si superano, meglio se con un sorriso: richiede meno fatica di un grugno imbronciato e, forse, ci guadagneremo un po’tutti.
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Messaggio Da salvo Ven 12 Set 2014, 10:11

Caro notaio condivido in pieno il pensiero di serradifalco! L arte andrebbe messa a disposizione di tutti a prezzi ragionevoli! Il problema e' che alcuni pennello-imbonitori sfruttano la scia di questa aurea dorata creata a livello economico da pochi professionisti, e allora quando la pagnotta e' grande qualche briciola cade !!
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Messaggio Da Notaio Ven 12 Set 2014, 14:30

Vi sono dei passaggi in questo editoriale che possono essere presi come riferimento anche per quanto è successo a Murakami. Il nipponico ha dichiarato apertamente di aver sfidato il capitalismo americano, ma ha perso e ne è uscito con le ossa rotte.

Tanti artisti italiani credono di essere dei grandi artisti ma sono solo dei piccoli e modestissimi imbrattatele o assemblatori di mobilia varia.
La crisi si combatte in tanti modi come sottolinea Serradifalco, bisogna provarci però.
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Messaggio Da Notaio Gio 09 Ott 2014, 00:49

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.
E' il turno di Sandro Serradifalco con un'articolo attualissimo che ci parla del fatto che in Italia praticamente non si studia più la storia dell'arte e noi che abbiamo un patrimonio senza uguali nel mondo, non riusciamo a vivere con la cultura.
Buona lettura.


Mettere da parte l’Arte senza impararla

Siamo il paese che detiene il maggior numero di siti iscritti nella lista dei patrimoni dell’Umanità dell’Unesco, con 49 aree all’attivo e 40 in lista propositiva.

Siamo il paese che per primo al mondo si è dotato di regole e organismi atti a tutelare il patrimonio artistico e del paesaggio, e ciò è avvenuto ben prima dell’inserimento della tutela nei principi fondamentali della nostra Costituzione.

Viviamo tuttora di rendita, nella percezione che l’estero ha di noi, per la reputazione di saper fare le cose a regola d’arte:quel Made in Italy che è anche terzo brand per notorietà al mondo, e che si associa immediatamente alla moda, al design e alla cucina.

Ma l’Italia, nell’immaginario collettivo, è anzitutto sinonimo di arte e bellezza.

Ebbene, a distanza di più di tre anni dalla riforma Gelmini, pare che l’Italia, almeno quella dei social network, si sia accorta solo ora, gridando allo scandalo, della soppressione dell’insegnamento di disegno e Storia dell’Arte negli Istituti Tecnici, Professionali e nei Licei; della contrazione della materia, nei Licei Artistici, da sette ore settimanali a tre, per non parlare della soppressione degli Istituti d’Arte, costretti a reinventarsi in Professionali o in Licei Artistici.
In realtà, in questi giorni non è cambiato nulla:del resto, come potrebbe peggiorare la situazione fin qui descritta?



Quindi perché se ne parla solo ora?
Vero è che dal 2010 ad oggi sono falliti tutti i tentativi di fare pressione per ripristinare la materia da parte dell’Associazione degli ex Istituti d’Arte aboliti e, recentemente, a Ottobre 2013, anche la raccolta firme contro la legge Gelmini, promossa da Italia Nostra:più di 15.000 firme, tra le quali spiccano quella dello stesso Ministro Bray, di Salvatore Settis, dei dirigenti del Fai e del Mibac e dell’Anisa, l’Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte.
Andando per ordine, l’8 novembre 2013 il Parlamento ha convertito in legge il decreto scuola L’Istruzione riparte, che prevede tra l’altro borse per il trasporto studentesco, fondi per il wireless in aula e il comodato d’uso di libri e strumenti digitali per la didattica, e che ridà un po’ più di spazio alla Geografia, quasi cancellata dal Ministro Gelmini, ma non ne concede alla Storia dell’arte, con buona pace dell’art. 9 della Costituzione. E’ importante l’uso di internet anche a scuola, ma all’interno dell’ora d’insegnamento della materia stessa, non certo come pratica regolare durante qualsiasi lezione:per usare le parole di Eco, c’è una malattia che ha colpito la nuova generazione e si chiama perdita della memoria, non più allenata per il vizio quotidiano di ricorrere ai motori di ricerca per ottenere qualsiasi informazione.

E, a mio avviso, quanto è successo in questi giorni denota anche un’altra sindrome legata all’uso irresponsabile del mezzo:è la creduloneria, l’incapacità di saper valutare le notizie che circolano sul web, e che, solo per il fatto di essere state scritte e messe in rete, assumono per tanti i connotati della verità assoluta, con buona pace della verifica delle fonti. Così, una situazione ormai conclamata e immobile da più di tre anni, viene fatta passare per notizia fresca, con certe varianti inventate su fantomatiche bocciature di una proposta di reintroduzione dello studio della Storia dell’Arte da parte della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera. Niente di tutto questo è successo, perché la materia Arte, nel decreto L’Istruzione riparte, non era nemmeno nominata, persa appunto insieme alla memoria. E’ ancora lì, che aspetta di essere reintrodotta nelle scuole, perché le generazioni future possano averne coscienza.

In realtà siamo un paese che non è in grado di sostenere il suo stesso Patrimonio, e anche il recente Decreto Valore Cultura ne è la dimostrazione.
La Storia dell’Arte prepara alla pittura, alla scultura, all’architettura ma anche al design, alla moda, al fumetto e al disegno tecnico, aprendo nello studente scenari e prospettive per il suo futuro. Serve a capire le connessioni tra storia e potere, usi e costumi:non è materia a sé, ma intimamente legata ai movimenti letterari, alla politica, e infine alla bellezza delle cose di cui nessun essere umano dovrebbe essere privato, soprattutto negli anni della formazione. E’ uno studio che prepara a riconoscere e comprendere la bellezza, instillando l’istinto di conservarla e di proteggerla per mantenere la nostra memoria storica.

Governi come quello francese o austriaco, persino il Portogallo, che versa in una condizione economica ben più grave della nostra, hanno sempre guardato al nostro ordinamento scolastico come un modello e hanno deciso di adottare l’insegnamento dell’arte già dalle scuole primarie.
E proprio la Francia ci fa sapere, notizia di questi giorni, che con i suoi 58 miliardi di euro annuali la sua Cultura contribuisce alla ricchezza nazionale 7 volte tanto l’industria dell’automobile, ricordandoci che solo da noi con la cultura non si mangia.
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Messaggio Da Notaio Sab 18 Ott 2014, 23:28

Curiamoci con l’arte,
così si intitola l'editoriale della direttrice di Arte In, Lorella Pagnucco Salvemini pubblicato ad ottobre 2014.

L'arte come terapia è un fenomeno già noto per molti di noi che amano andare in giro per musei, anche se per tanti in realtà è solo un sistema per far soldi o meglio, per sperare di far soldi.

Eccovi l'articolo molto interessante e provocatorio per certi versi.

Homo sine pecunia imago mortis, dicevano i latini. In effetti, in questo autunno caldo, con sempre meno denaro in circolazione e nelle tasche, abbiamo la sensazione che il terreno stia sprofondando sotto i piedi, ci sentiamo soffocare, diventiamo pavidi e insicuri come al cospetto della morte. Anche se proviamo a consolarci con il credo cattolico-rinunciatario che i soldi non procurino la felicità, tutto quello che viene in mente è: figurarsi la miseria. Con buona pace del papa più pauperista degli ultimi pontificati, Francesco.
Scrive John Scott, psichiatra, che è proprio: “in momenti come questi che si instaura un circuito della paura inconscio e incontrollabile. Un fenomeno che possiamo addirittura vedere fisicamente con una risonanza magnetica cerebrale. L’emotività che prevale sulla razionalità spinge a tirarci indietro”. Gli fa eco Richard Peterson, neuropsichiatra: “a frenare la ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie”. E la depressione che ne consegue può assumere perfino le caratteristiche di una patologia contagiosa, come il morbillo o l’ebola. Allora, ognuno tenta di guarire a proprio modo. Chi con il prozac, che (almeno per ora) passa la mutua; chi con la cioccolata a 3X2 nei discount, chi con una bella passeggiata, che al massimo consumerà leggermente le suole. Se, poi, abbiamo la fortuna di amare l’arte, siamo già dei privilegiati. Il suo potere terapeutico è scientificamente accertato. Il benessere psicofisico che provoca, apre la mente e stimola le iniziative. La cura è gradevole, basta andare in giro per mostre e musei (in alcuni giorni sono previsti ingressi omaggio per tutti). Per chi dispone di un po’ di mezzi, e non si è fatto ancora sotterrare dal pessimismo dilagante, questo è proprio il momento giusto per acquistare opere d’arte. Adesso, si compra piuttosto bene pressoché ovunque. In generale, gallerie, case d’asta, fiere  sono diventate più selettive nella qualità delle offerte. Non si accontentano solo delle firme. Oggi, non basta più proporre un Picasso, ci vuole un bel Picasso.
Inoltre, c’è da dire che non si è mai visto un collezionista povero. Al contrario, incontriamo tanti ex poveri diventati ricchi grazie a una collezione ben assortita. Hanno cominciato scegliendo una grafica, un disegno, un piccolo olio. Nel tempo, hanno affinato gusto, fiuto e rimpinguato il portafoglio. Si sono potuti permettere man mano autori di maggior valore. Ora, si ritrovano con milioni alle pareti. Fra le tante strampalate ricette anticrisi, eccone una che vale la pena seguire.
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Messaggio Da Notaio Mer 03 Dic 2014, 00:04

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.

E' il turno di Paolo Levi, con un articolo simpatico e al tempo stesso molto profondo, dedicato alla Biennale di Venezia, che dovrebbe fare riflettere su dove stia finendo l'arte contemporanea.

In Biennale senza taccuino.

Amo la Biennale di Venezia. L’ho sempre amata e l’amerò sempre. Ho amato alcuni membri delle sue giurie che assegnavano premi a ragion veduta. Primo fra tutti Giuseppe Marchiori, storico d’arte moderna di grande autorità – lo considero uno dei miei maestri e nella sua Venezia lo chiamavano il Doge – che nel 1958, alla XXIX edizione, ha contribuito all’assegnazione del Primo Premio Internazionale al pittore prima astratto poi surrealista Osvaldo Licini, di Monte Vidon Corrado. E fu un colpo di fortuna per il gallerista di Bergamo Lorenzelli: essendogli arrivata, non si sa come, l’anticipazione della notizia, acquistò all’ignaro maestro, con tutta la sua sagace voracità di mercante e per una cifra irrisoria, tutto il blocco dei dipinti che formavano la personale ai Giardini, presso il Padiglione Italia. Le quotazioni di mercato salirono subito alle stelle, ma Licini non poté godersi la gloria perché venne a morire due mesi dopo.

Amo la Biennale di Venezia che assegnò il Primo Premio Internazionale nel 1964 a Robert Rauschenberg, uno dei principali protagonisti della Pop Art statunitense, fino ad allora del tutto sconosciuto. Essendo i suoi lavori giunti fuori tempo massimo a Venezia, gli venne trovata una prima collocazione presso il consolato americano. I giurati, senza fare tanti complimenti, superarono l’anormalità del luogo espositivo, riportarono le sue opere in gondola nella sede ufficiale della Biennale e gli conferirono la prestigiosa assegnazione. Anche in questo caso il mercato ha avuto la sua parte; anzi, il suo burattinaio, impersonato dal potente gallerista di New York Leo Castelli. Sapeva dare gli ordini e a chi, anche a migliaia di chilometri di distanza. Ho amato la Biennale soprattutto dagli anni Settanta agli anni Ottanta. Ventennio per me memorabile, in cui ho preso appunti sul taccuino come inviato della rivista Bolaffi Arte. All’inaugurazione era interessante ricevere flash di commenti mentre si transitava da un padiglione all’altro. In quel tempo la rivista, diretta da Umberto Allemandi, faceva opinione. Ero quanto mai corteggiato. Tutti sapevano che ogni testimonianza raccolta l’avrei pubblicata. Venivo usato; mi lasciavo usare.

La mia supposta neutralità e la correttezza nel riferire ai lettori piaceva a tutti. Nessuno mai mi chiese: «Levi, questo per favore non riportarlo». Annotavo pareri al veleno. Il più elegante era Giulio Carlo Argan. Mi sono sempre chiesto se era lui a essere contorto, oppure ero io a non capire a chi era diretto il messaggio; il più felino era Maurizio Calvesi; il più diplomatico Giuseppe Marchiori; il più assoluto Renato Barilli; il più gioviale Flavio Caroli. Cercavo di evitare Achille Bonito Oliva, ma lui riusciva sempre a incrociarmi per sentenziare sugli argomenti che gli stavano più a cuore in quel momento. Ma non ricordo quali. Sono trascorsi da allora quattro decenni. La Biennale l’ho visitata ancora, ma senza taccuino. Non conosco più nessuno. Sono tutti giovani, artisti e critici. Dei primi non capisco il rapporto tra forma e contenuto, e dei secondi gli argomenti usati per la loro decodificazione. Andrò alla LV Esposizione, ma solo per godermi il messaggio arcano di Giulio Paolini, definito dagli etichettari come appartenente al comparto concettuale. Egli rappresenta, in verità, tutto quello che desidero capire del passato classico letto in chiave contemporanea; egli non lo interpreta ma lo fissa in una piena, struggente, assoluta libertà; interrogante, ma senza un’unica risposta. La sua, è la solitaria trasposizione del suo museo ideale in immagini asettiche, lontane da qualsiasi emozione, tipiche della solitudine di un artista colto che si rivolge soprattutto al proprio io interiore, in un monologo tormentato sulla visione inesplorata, e nel contempo sempre vera, di un Grande Maestro.

Ha iniziato la sua mirata esplorazione nel 1967 con Ragazzo che guarda Lorenzo Lotto. Questo lavoro sarà presente in Biennale? Mi auguro di sì. Il pubblico colto – colto di sorpresa – si soffermerà, indeciso: «Ma questo lo riconosco!» Chi Lotto o Paolini? Ai posteri l’ardua sentenza. Per quel che mi riguarda amo e amerò sempre il Padiglione Italia, i Giardini; con o senza taccuino. Lo spettacolo continua e io amo il teatro dell’improvvisazione, quello non preparato a tavolino. Anche il mercato dell’arte ha le sue esigenze di apparenza e di appartenenza. È questione di canovaccio: quello messo in scena da Vittorio Sgarbi alla LIV Esposizione recava il titolo suggestivo L’arte non è cosa nostra. Chissà con chi intendeva prendersela, il solito Vittorio? Mah!
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Messaggio Da Notaio Mer 08 Apr 2015, 00:23

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.

E' il turno di della direttrice di Arte In, Lorella Pagnucco Salvemini. E' un bellissimo articolo che condivido in gran parte e che dovrebbe far fischiare le orecchie e parecchi curatori di mostre del niente.


QUANDO L’AMBIZIONE PRESCINDE DALLA CULTURA

Francamente, non se ne può più. A ogni mostra che vai, 10 curator che trovi. Non critici, storici, giornalisti d’arte, professioni desuete che hanno perso il loro fascino. Troppo colti e troppo poveri, ormai, per interessare l’effervescente e festoso pubblico del jet set artistico internazionale. Che è composto, si sa, da persone un po’ capricciose, che si annoiano in fretta, che vanno a una inaugurazione se sicure che sarà un evento. Soprattutto, se si promette loro che là incontreranno , non già il dotto e autorevole docente universitario, ma il curator in auge, l’ultima star del firmamento critico internazionale. Questo del curator, in realtà, non è fenomeno nuovo. La sua figura è iniziata ad apparire fin dagli anni ‘90. Una tendenza, sembrava allora, prettamente statunitense, modaiola ed effimera. Invece, pian piano, nel giro di un ventennio ha preso il sopravvento. Ora, una buona parte dei trenta/cinquantenni che scrivono d’arte, firmano un catalogo o un articolo di giornale, organizzano una rassegna, non importa se in prestigiose sedi museali o nei refettori delle loro parrocchie, tutti baldanzosamente si autodefiniscono curator. Il personaggio in questione non ambisce a essere un critico, tantomeno uno storico. Spesso, anzi, ha della storia dell’arte poche, vaghe, lacunose conoscenze. È uno che se ci si azzarda a farlo esprimere su Raffaello o Fidia, con sorriso soave risponde dirottando prontamente la conversazione sul calcio o sui migliori ristoranti di sushi, con competenza che sgomenta. Però si sforza di sapere tutto sugli artisti in voga al momento. È munito di un suo personale who’s who dell’arte contemporanea, che rivede quotidianamente e che gli funge come test di autostima: più si eleva il numero di potenti che riesce a ingraziarsi, più si piace. Non è uno che perde tempo a girare per gli atelier in cerca di talenti: fra un artista famoso e uno di valore, non ha dubbi e sceglie il primo. È talmente abile nelle pubbliche relazioni (con ogni evidenza la principale capacità) che riesce a farsi convocare per la direzione di biennali, quadriennali, istituzioni un tempo gloriose, spingendo il vecchio, saggio, erudito professore sulla malinconica via del tramonto. Del resto, per quello che fa il curator (megaeventi con l’annesso ambaradan di artisti che si vestono, si muovono e cicaleggiano da star) la cultura proprio non serve. Gli basta l’aggiornamento. Pochi libri in testa, si nutre di rotocalchi, di pettegolezzi da salotto, dove eccelle quanto a giudizi sprezzanti su tutti i suoi simili, a eccezione di quelli che gli sono o potrebbero tornargli utili. Ha una visione manichea dell’artista che divide in due categorie: in, quanto più Kitsch , fetish, horror glam, anticattolico, provocatorio; out, se sa fare bene il suo mestiere, se si avvale ancora di tela e pennello, se fa trasparire dall’immagine una emozione o, quel che è peggio per il curator, addirittura un pensiero. C’è da capirlo: il massimo della sua riflessione critica non va oltre lo slogan.
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Messaggio Da axis Mer 08 Apr 2015, 00:26

Oro colato.
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Messaggio Da salvo Mer 08 Apr 2015, 09:00

axis ha scritto:Oro  colato.

il lento lavoro dell' americanizzazione del mondo iniziato nel dopo guerra (vedi popper) sta dando i suoi frutti, stravolgendo usi e consuetudini che hanno contraddistinto la nostra cultura e chi ne era esponente, per millenni!
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Messaggio Da Notaio Mer 24 Giu 2015, 00:40

Riprendo la pubblicazione degli editoriali.

E' il turno della direttrice di Arte In, Lorella Pagnucco Salvemini. E' un articolo incentrato sulla biennale di Venezia, manifestazione tuttora in corso di svolgimento.

Non solo lo condivido, penso che sia la risposta che ogni amante dell'arte dovrebbe dare a questi personaggi che hanno ridotto questa manifestazione d'arte a poco più di una vetrina a pagamento di spazzatura o poco altro. L'arte qui è morta e sepolta da tempo.
Brava Lorella

ALLA BIENNALE 2015, UN’ACCOZZAGLIA DI IMMAGINI SPESSO SGRADEVOLI. E TROPPA POLITICA

Va detto subito, per amore di chiarezza e per rispetto dei lettori: una Biennale così brutta non si era mai vista. Se qualcuno (anacronisticamente?) continua ad aspettarsi dall’arte uno stimolo all’intelligenza e un piacere estetico è meglio che per quest’anno rinunci alla visita veneziana. Molti, difatti, già nei giorni della vernice hanno disertato l’appuntamento, specie i grandi collezionisti, artisti e galleristi italiani, verosimilmente, spinti all’indifferenza dai roboanti e cervellotici annunci del curatore, Okwui Enwezor, alle precedenti conferenze stampa. “All the world’s futures” (Tutti i futuri del mondo): questo il titolo della 56a edizione, che così promuove se stessa, facendo pomposamente leva su proprie presunte capacità divinatorie, come se, anziché convocare artisti, il direttore avesse invitato in laguna maghi e stregoni di tutto il mondo. Magari l’avesse fatto, almeno ci saremmo divertiti. Invece, è sufficiente un giro ai Giardini e alle Corderie per smorzare immediatamente ogni timido tentativo di sorriso. In mostra tutte le miserie del nostro tempo: catastrofi, guerre, epidemie, violenze. Il tutto in una accozzaglia caotica di immagini, spesso talmente orribili che lo sguardo non riesce a trattenerle. Ma per la visione di tutte queste tragedie, in assenza di un filo rosso che esprima il pensiero del curatore, non basta già quanto ci propinano quotidianamente i tg di tutto il globo? Tant’è. In un mondo devastato, anche l’arte è a lutto. Entriamo nel Padiglione centrale come in una camera ardente, o in una stanza delle torture, fra tende nere che pendono, teschi moltiplicati all’infinito (Marlène Dumas), e quel video che ossessivamente propone un uomo che si vomita addosso sangue (Christian Boltansky), tanto per citare qualche esempio. Non solo ribrezzo in questa Biennale, ma anche politica. Tanta, troppa, certamente fuori luogo. Di una noia mortale la lettura integrale del “Capitale” declamato da Isaac Julien. Oltretutto, viene da chiedersi che cosa centri Karl Marx con l’arte, quella contemporanea in particolare, sostenuta com’è da potenti lobby finanziarie, museali e mercantili. Compresa quella amata ed esposta da Enwezor a Venezia: un marxista in ritardo di 150 anni e con i soldi degli altri.

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Messaggio Da Notaio Mar 30 Giu 2015, 00:42

E' il turno di Paolo Levi, direttore di Effetto arte. Editoriale del 29 maggio 2015.

La Resistenza Disarmata



Su questo numero di Effetto Arte non mi è possibile trascurare una scadenza commemorativa così importante come i settanta anni dalla Liberazione. Butto giù questo editoriale nel giorno non casuale del 25 aprile. Nel 1945 avevo dieci anni e mi porto appresso molti ricordi di quei giorni. Ma non sono io l’argomento principale, e qui annoto solo che un decennio dopo sono stato coinvolto come iniziale osservatore dell’arte, e impegnato in una scrittura allargata anche al teatro.

I miei coetanei che si dedicavano alla pittura, erano divisi tra i figurativi e quelli del tutto convertiti alla ricerca informale. Già in quel tempo, ero attratto da entrambe le sperimentazioni visive. Ero soprattuttto sedotto, per motivi forse sentimentali, dal Realismo Sociale. Amavo i quadri che illustravano le scene della Resistenza.

Prediligevo i dipinti di Renato Guttuso. Ho conservato religiosamente la riproduzione dei suoi disegni dedicati ai Martiri delle Fosse Ardeatine. Si tratta di un volume – il titolo era Gott mit uns – realizzato dal maestro siciliano alcuni anni dopo il tragico evento. Non intendo spendere parole retoriche sulla guerra, la cui memoria è fatta di sangue, non solo di partigiani fucilati e impiccati, ma di tutte le persone rimaste anonime, perite nelle città, sotto le bombe. A volte mi chiedo: quanti bambini sono morti sotto le macerie?

Ma poi scopro che Renato Guttuso e i suoi compagni di cordata, dopo la guerra, anziché ricordare, o meglio, interpretare realisticamente come simbolico avvertimento quei morti innocenti, hanno privilegiato tematiche inneggianti all’occupazione delle terre o alla retorica del sudore in fabbrica. Tematiche soprattutto ambite dalla borghesia impegnata a sinistra, formata da intellettuali che pure anni prima avevano privilegiato le tele di soggetti fascisti di Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Ubaldo Oppi. A questo punto sento il dovere di ricordare due diversi momenti della Resistenza, quella disarmata dell’antifascismo clandestino, che ha inizio con l’uccisione di Giacomo Matteotti e che coinvolse fino all’8 settembre del 1943 operai e di intellettuali, e quella armata della lotta di Liberazione.

In questo festoso anniversario mi chiedo, e non è certo la prima volta, quali siano stati gli artisti che, a rischio personale, si siano impegnati clandestinamente alla Resistenza Disarmata.

Ebbene, andando a scartabellare tra le varie biografie di pittori e di scultori, scopro solo due nomi: quello di Aligi Sassu, condannato nel 1935 dal Tribunale Speciale di Fossano per la sua attività antifascista. Scarcerato, dipinse nel 1944 la scena raccapricciante a cui aveva assistito della massa dei corpi di partigiani fucilati in piazzale Loreto. L’altro artista arrestato e finito al confino è stato Carlo Levi. Nella Resistenza Armata il numero di artisti partigiani si allarga a Emilio Vedova, che militò nelle formazioni del Veneto, Mattia Moreni in Romagna, Ernesto Treccani e il giovane scultore Andrea Cascella in quelle della Lombardia.

È stato proprio lui a raccontarmi, negli anni Settanta, che mentre stava ripulendo Via Brera dai cecchini fascisti, a un certo punto s’imbatté in Mario Sironi, in fuga con la pistola in mano.

Sironi, sin dal primo decennio del secolo, si era imposto a critica e collezionismo per la sua eccezionale personalità creativa. Divenuto famoso, aveva aderito per fede, con anima e corpo, al fascismo, ma non per tornaconto personale, e d’altronde non fece mai del male a nessuno.

Andrea Cascella lo riconobbe subito e, preso da pietà, comprendendo che avrebbe fatto una brutta fine, lo salvò nascondendolo sotto un androne, in attesa che si facesse sera. Ma per giungere a una piena glorificazione della Resistenza in pittura e in scultura, dobbiamo attendere l’immediato dopoguerra, e la comoda scelta della maggior parte dei pittori figurativi che capirono subito da che parte tirava il vento.

E qui notiamo che la maggior parte dei docenti presso le Accademie di Belle Arti italiane, che erano stati fascisti della prima ora e avevano indossato la camicia nera durante le riunioni di docenza, aderirono al Partito Comunista Italiano, sia con tanto di tessera, che come utili idioti.

Così, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, abbiamo avuto i Festival dell’Unità rigurgitanti di dipinti, disegni, litografie e tragiche rappresentazioni della Resistenza armata, per mano di pittori e scultori che in vita loro non avevano mai sparato un colpo. Un bell’esempio di coerenza etica e professionale.
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Messaggio Da Notaio Mer 01 Lug 2015, 00:51

Ma il commento della Lorella sulla Biennale vi è piaciuto?

Io gli manderei un mazzo di rose solo per quello che ha scritto....

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Messaggio Da Notaio Lun 21 Dic 2015, 00:40

Leggetevi questo editoriale della Lorella Pagnucco Salvemini, pubblicato sul nuovo numero di arte-in dicembre 2015. E' da condividere 100mila volte.


IL VERDETTO DELLA COLF VALE PIÙ DELLA CRITICA CERVELLOTICA

La – tragicomica – storia dell’arte contemporanea si ripete: capolavori (si fa per dire) presi per rifiuti da fin troppo diligenti addetti alle pulizie, che prontamente li rimuovono, ci cambiano connotati e destinazioni d’uso, o li buttano, schifati, nel bidone del’immondizia. Accade alla Porta di Marcel Duchamp alla Biennale di Venezia del ’78. Imbianchini straordinariamente efficienti ritengono opportuno ritinteggiarla assieme alle pareti della sala. Vogliono eseguire un lavoro ben fatto. Solerzia che costerà alla istituzione veneziana 400 milioni di lire dell’epoca, da risarcire al collezionista romano Fabio Sergentini, e una causa protratta per 9 anni. Nel ’73, un destino simile tocca a Joseph Beuys. Porta al Castello di Morsbroich a Leverkusen una vasca incerottata, con al centro il suo bel, ripugnante pezzo di grasso. Anche in questa occasione, inservienti dallo spiccato senso del dovere, con tanto sudore e olio di gomito, si prodigano per asportare il sudiciume. Così igienizzata, l’opera dello sciamano diventerà un utile secchiello del ghiaccio per le loro birre. Possono, dunque, vantare precedenti illustri, Sara Goldschmied e Eleonora Chiari, autrici di Dove andiamo a ballare stasera? al Museion di Bolzano. (Titolo impropriamente uguale a una guida pubblicata dall’ex ministro degli esteri Gianni De Michelis, che non farà mai mistero della sua propensione per feste e danze, ma che non lascerà certo dietro di sé la sporcizia messa in scena dalle artiste milanesi). Ecco il risultato del loro parto: scaraventati a terra, alla rinfusa, coriandoli, mozziconi, cartacce, bottiglie vuote di champagne, bicchieri, perfino scarpe e vestiti. Per il duo, l’installazione riproduce il set di un dopo party. Sostengono di essersi ispirate agli anni ’80, al consumismo e all’edonismo sfrenati del periodo. Sarebbe, perciò, un lavoro di denuncia. Peccato che pure cotanto impegno finisca nella spazzatura. Fatica per ore il personale incaricato per ripulire e sbiancare tutto, pensando, verosimilmente con disprezzo e rabbia, che davvero ci sarà stato un ricevimento di gran maleducati la sera precedente. Per la direttrice della sede espositiva, Letizia Ragaglia, si tratta di un errore di comunicazione. Per noi, semplicemente, di esposizione. Se chiamati a scegliere fra interpretazioni cervellotiche di pattume eletto a opera d’arte e interpretazioni nate dal sano buon senso della gente comune, non abbiamo dubbi. Stiamo dalla parte della gente comune. Del resto, anche la mia colf, pur non sapendone niente, si commuove davanti a un dipinto di Anselm Kiefer.
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Messaggio Da Notaio Sab 26 Dic 2015, 18:58

E' il turno di Stefano Zecchi, pubblicato sul nuovo numero di arte-in dicembre 2015-gennaio 2016. Gli amici sanno che la penso esattamente come lui e non solo contro l'ex marito di Cicciolina.
La frase più bella dell'editoriale è" il problema non è lui, ma chi lo apprezza e lo compera".


Il kitsch in piazza.
JEFF KOONS A FIRENZE

Già il fatto di chiamare “In Florence” , usando la lingua di Shakespeare, una manifestazione artistica che coinvolge nelle sue sedi più prestigiose la città, capitale dell’umanesimo dell’Occidente, lascia intuire i disagi psichici degli organizzatori. D’altra parte, che ci sia qualche confusione sul senso dell’arte e sul suo uso negli spazi pubblici, lo si capisce dalle parole del sindaco Nardella, che sarà anche un eccellente amministratore, ma che mostra tuttavia quanto egli sia sconclusionato se si mette a parlare di estetica. Nel presentare “In Florence” , ha detto che compito dell’arte è “suscitare reazioni nella coscienza delle persone”. Reazioni della propria coscienza, le persone le provano quando vedono le immagini di migranti che sbarcano mezzi morti dai gommoni sulle nostre coste o che attraversano come deportati le pianure balcaniche in cerca di pace. Poi ci sono coscienze che reagiscono alle notizie di amministratori corrotti, di politici faccendieri, di medici che operano la gamba destra invece della sinistra, e la lista dei motivi, per cui la coscienza delle persone non riesce a rimanere indifferente, è quasi infinita. Vogliamo metterci in questa lista anche l’arte? Basta intendersi sul tipo di reazione. Gli esempi appena riportati parlano di una coscienza che si ribella a quel sentimento etico che una semplice educazione, rispettosa della persona e della convivenza civile, dovrebbe impartire. Vogliamo metterci l’arte in questo tipo di reazione? Sì, quando la coscienza reagisce all’assenza di educazione estetica, alla sfacciata esibizione del cattivo gusto. Intendiamoci: se l’amministratore della città mettesse nel suo giardino di casa i nanetti e Biancaneve, sarebbero fatti suoi e della sua educazione estetica. Se avessi il potere, lo arresterei; non ce l’ho; resta libero; lui non m’invita a casa sua; se m’invitasse non ci andrei per evitare che la mia coscienza reagisca malamente alla visione dei nanetti. Ma se invece di un giardino privato si avesse a che fare con uno spazio pubblico? Non c’è una responsabilità politica della bellezza degli spazi pubblici, ancora più grande e significativa se quegli spazi appartengono alla capitale dell’umanesimo occidentale? Se chi ricopre responsabilità amministrative facesse mettere nell’arengario di Palazzo Vecchio i nanetti e Biancaneve non andrebbe denunciato al tribunale dei diritti dell’estetica, da me presieduto per anzianità accademica? Il guaio è che lo sconclusionato sindaco ha fatto anche di peggio, perché se nell’arengario ci fossero i nanetti, i bambini si divertirebbero a giocarci intorno, invece ha pensato di installare, accanto al David di Michelangelo e a Giuditta e Oloferne di Donatello, una statua che Jeff Koons fece nel 2010, intitolata Pluto e Proserpina, ovviamente una statua fondamentale per “suscitare reazioni nella coscienza delle persone”, che già reagisce abbastanza per tutte le porcherie che le tocca di sentire e vedere, da non aver proprio bisogno di reagire ad altre porcherie. Koons fa quello che può, è riuscito anche a sposare la pornodiva Cicciolina, guadagna moltissimo come artista kitsch: il problema non è lui, ma chi lo apprezza e lo compera. Se c’è chi vuol tenersi in casa un suo Ballon-dog-gif (proprio un palloncino di plastica leggera gonfiato e poi strozzato nei punti che consentono di trasformare la palla in un cane) o qualche altra sua kicciata, si accomodi pure. Però si rispettino gli spazi pubblici, soprattutto quando questi testimoniano una grandissima tradizione culturale attraverso le opere d’arte
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Messaggio Da Notaio Ven 15 Gen 2016, 00:25

Carlo Vanoni, Arte in, dicembre 2015

"L’uomo che ha stravolto la storia della pittura"

Dire Jackson Pollock è come dire Jimi Hendrix: marziani, non umani. Gente che stravolge, gente che è apparsa sulla scena anche solo per un istante, ma che a noi è sembrata l’eternità. Perché loro se ne sono andati via quasi subito, mentre quello che hanno fatto è rimasto. Per sempre. La pittura, prima di Pollock, l’avevano sempre dipinta più o meno nello stesso modo: in verticale. Non importa che si trattasse di un quadro o di un affresco o di una pala d’altare. Erano superfici verticali che l’artista dipingeva frontalmente. Poi è arrivato lui, Jackson Pollock, e ha detto no, non è vero niente, la tela va sbattuta a terra, sul pavimento, e io vi dimostro che si può dipingere facendo gocciolare il colore dal pennello. Come bombe cariche di energia colorata, i colori finivano sulla tela sdraiata disintegrando qualsiasi soggetto, distruggendo secoli di pittura figurativa, i colori disegnavano grovigli e forme informi che in Europa chiameranno “informale” mentre in America preferiranno denominare action painting, pittura d’azione. Era qualcosa che assomigliava molto al fraseggio di Charlie Parker che, negli stessi anni, tirava fuori dal suo contralto una musica simile, il be pop per l’appunto, e cioè note serrate e suonate alla velocità della luce dentro i locali fumosi della New York post war, al contrario di Pollock che invece preferiva una casa di legno con annesso fienile a Springs, Long Island. Questione di gusti. La storia, se ti chiami Steve Job, la puoi anche cambiare stando dentro un garage. A me piace pensare che dopo aver stravolto la storia della pittura, Pollock deve essersi acceso una sigaretta, deve aver tirato giù un’altra bottiglia di whisky, e deve aver detto fuck! e cioè “in culo tutto il resto” (no, non è volgare, è solo un intercalare molto yankee). E la pittura, da quel momento, è andata da un’altra parte. Ora, per chi volesse vederla, quella pittura la espongono al MoMa di New York. Che è un po’ come se agli Uffizi decidessero di fare una mostra su Botticelli: non è difficile, ce li hanno in casa i quadri. Quindi, fino al 16 marzo, è possibile visionare capolavori del calibro di One: Number 31, oppure 1950, ma anche disegni, incisioni e altre meraviglie realizzate dal 1934 al 1954. Poi basta. Nel senso che 2 anni dopo, l’11 agosto del 1956, il mitico Jackson ha deciso di schiantarsi con la sua automobile mettendo una pausa sulla sua pittura. Ma era ubriaco quella sera. Io, invece, lo divento ogni volta che guardo un suo capolavoro.

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Messaggio Da Notaio Lun 01 Feb 2016, 15:48

Non so quanti sappiano che Pluto e Proserpina di Koons non saranno più presenti in Piazza della Signoria. Il sindaco dopo qualche velata critica ha deciso che la copia del Bernini, realizzata in acciaio dell'ex marito di cicciolina, non deve stare più nella piazza.
Sdegnato di tanto affronto ha deciso di non accettare più altra sede a Firenze.

Finalmente una buona notizia, dell'assenza di tanta arte ce ne faremo una ragione.
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Messaggio Da gianabo Lun 01 Feb 2016, 22:56

Lo vedevo bene all'Accademia, di fronte al David.
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Messaggio Da Notaio Mer 10 Feb 2016, 00:31

Stefano Zecchi, Arte In, Febbraio-Marzo 2016.

La volgarità? Crea assuefazione

IL CATTIVO GUSTO DOMINA NEL LINGUAGGIO E NELL’ARTE

Era il 25 ottobre 1976 quando ai microfoni di Radio Rai, durante la trasmissione Voi e io punto e a capo, Cesare Zavattini pronunciò la fatidica parola “cazzo”. Alla regia del programma c’era un allibito, giovane regista, impaurito per le conseguenze di quell’audace trasgressione verbale, a cui anche lui sarebbe andato incontro: il giovane allibito e impaurito era Beppe Grillo. Molte ragioni portavano Zavattini a esprimersi volgarmente, e leggendo il testo di quella trasmissione, non ultima ragione poteva essere il perbenismo dell’interlocutore di Zavattini, appunto Beppe Grillo. La parola volgare che mai prima nessuno aveva osato pronunciare pubblicamente, era un inno al diritto d’indignazione in un luogo in cui regnava sovrana l’ipocrisia. A un linguaggio convenzionale, senza forza espressiva, veniva contrapposta la trasgressione verbale. La prima differenza tra ieri e oggi consiste nel fatto che quel linguaggio convenzionale neppure più lo si conosce: risulta ostico, crea impaccio nella relazione verbale. Se si ascolta il modo di esprimersi degli adolescenti, il linguaggio educato, privo di parolacce, di modi di dire volgari, di semplificazioni banali appare l’atteggiamento di un babbeo. L’educazione al linguaggio è un’educazione alla bellezza, che dovrebbe iniziare in famiglia e proseguire nella scuola, ma se nella comunicazione “pubblica” la volgarità è la norma, è impossibile gestire l’eccezione in casa propria e nella scuola. Ormai c’è l’assuefazione al cattivo gusto; la teoria estetica utilizza, per connotare la cosa di cattivo gusto, il termine tedesco Kitsch, che letteralmente significa “robaccia”, “oggetto residuale”. Ma non sempre nel Kitsch c’è consapevolezza, c’è un’intenzione, c’è una volontà di esprimere o rappresentare “cattivo gusto”. Talvolta, dominano l’ingenuità e la banalità. La volgarità espressiva è invece un Kitsch assolutamente consapevole o, meglio, tende a rendere normale – non solo accettabile – la comunicazione volgare, e a far sentire banale la persona che non si esprime volgarmente. Condivido quella filosofia che ritiene pensiero il linguaggio: aggiungerei che il pensiero della bellezza è nel linguaggio. Se in Zavattini il compiacimento della volgarità era il gusto della persona colta per l’infrazione della comunicazione ordinaria allo scopo di renderla più espressiva, l’assenza di cultura ha come immediata conseguenza l’indifferenza verso la volgarità del linguaggio. A questa relazione potrebbe sfuggire soltanto chi è consapevole della propria ignoranza e desidera superarla. Allora, ci si può ancora stupire di tanta volgarità che infesta il mondo dell’arte? Se un tempo erano la cultura nobiliare ed ecclesiastica a individuare e proteggere l’artista, oggi quella committenza è sparita, non si è ridefinita o reinventata perché è indifferente alla propria formazione culturale. E quell’assenza di cultura si trova riflessa nell’artista. Ci si può ancora lamentare del fatto che sia oggi la grande finanza a stabilire chi sia artista e quale sia la sua quotazione di mercato? La finanza diventa padrona dove latitano la cultura della committenza e della critica.

E come dargli torto?
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Messaggio Da axis Mer 10 Feb 2016, 01:11

Parole sante.
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Messaggio Da Notaio Sab 09 Apr 2016, 00:15

Lorella Pagnucco Salvemini, Arte In, Febbraio-Marzo 2016.

“Il tramonto dell’Occidente”, la fortunata e discussa pubblicazione di Oswald Spengler, nel 2017 compirà un secolo. E a vedere quanto accade intorno a noi, pare proprio che ci siamo. Il declino preconizzato 100 anni fa è sotto i nostri occhi sgomenti, quotidianamente. L’Europa ha l’alzheimer, non ricorda più nulla. Siamo stati nelle nostre espressioni più nobili cattolici, illuministi, liberali, perfino socialisti. Ognuno secondo la propria coscienza, la propria fede, la propria convinzione si adoperava per un mondo migliore. Oggi, barcolliamo per le nostre città come zombie. Luoghi che non riconosciamo, devastati da attentati terroristici, invasi da disperati di altre razze, culture, religioni  a cui offriamo asilo e da cui capita di ricevere in cambio l’insulto, il disprezzo, il furto, l’aggressione, lo stupro, l’assassinio. Da qui la smemoratezza. Di fronte a chi si  prodiga per il nostro annientamento, meglio dimenticare di “porgere l’altra guancia”. Dalle moschee che abbiamo permesso loro di edificare, qualche imam scriteriato inneggia alla jihad. E noi dovremmo apostrofare il predicatore fanatico, come Voltaire il vecchio abate: “Monsieur, non condivido una parola di quel che dite, ma sono pronto a dare fino all’ultima goccia del mio sangue affinché lo possiate dire liberamente”? Non abbiamo scampo: o rispondiamo alla ferocia con altrettanta ferocia (ma siamo cresciuti pensando che ogni atto violento sia una sconfitta dell’intelligenza), o soccombiamo, rinunciando a 4.000 anni di civiltà, a tutti i nostri valori, alla tolleranza, alla pace, alla libertà (il che equivale alla perdita d’identità). 120 vittime a Parigi lo scorso 13 novembre, al grido Allah akbar. 400 denunce di donne per molestie sessuali e stupri perpetrati la notte di capodanno a Colonia da clandestini e richiedenti asilo. C’è chi piange, chi commemora, chi ride (di noi). Qualcuno reagisce. Qualcuno con sensibilità, qualcun altro approfittando per ottenere un po’ di pubblicità. Gli street artist nella capitale francese rispondono alla bomba con la bomboletta e, al motto di fluctuat nec mergitur, decorano muri e strade, per non scordare e per ricominciare a vivere. Finora, la reazione più toccante da parte degli artisti. Alla trentaduenne performer svizzera Milo Moiré, invece, è venuto in mente di spogliarsi completamente e, con addosso solo le scarpe, di sfilare davanti al Duomo del capoluogo della Renania con un cartello  con la scritta: “rispettateci: non siamo prede libere anche se siamo nude”.  Lo ha fatto così, senza vergogna, con tanti sorrisi e tanti fotografi attorno convocati per l’occasione. Francamente, non sembra proprio una idea brillante opporre alla cultura del burqa la nudità nella pubblica piazza. Che è un reato,  oltre che una provocazione sterile. Fa correre il rischio di essere prese per delle poco di buono e, data la rigidità dell’inverno tedesco,  pure quello di contrarre la broncopolmonite.

E' difficile non condividere il parere di Lorella, soprattutto per il declino che sembra inarrestabile. Sembra che la storia non abbia insegnato nulla all'Europa. Non so se la politica riesce a capire quello che sta accadendo realmente sul piano sociale e il mondo dell'arte assiste a questo declino in modo assolutamente inerte o quasi.
Della Moirè parlerò in altro post, ma qui vi posto la foto della sua performance di protesta. Ha dichiarato guerra al pelo, quella è l'unica cosa certa, oltre alla pubblicità che si produce quale degna seguace di Marina A.

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